lunedì 22 settembre 2014

Due - Walter Khan

               -  Un attimo di silenzio prego!
E' arrivato il turno di Walter Khan. Si avvicini al trampolino Walter.

Non riesco a ricordarmi a cosa pensassi in quel momento. Quando sei a 150m dalla terra ferma i pensieri sono rarefatti come l'aria che respiri. Ti sembra di essere a metà strada tra il sole e la terra, e l'unica cosa che riesci a fissare è l'orizzonte davanti.

      - Faccia un passo avanti Walter, non abbiamo tutta la giornata. 
E non si bagni nei pantaloni, altrimenti poi ci tocca pure asciugare il trampolino 

Doveva essere Jonas quello che stava parlando e che mi faceva pressione da dietro. Non ho mai amato avere nessuno dietro le spalle, e Jonas era una di quelle persone che non mi sarebbe piaciuta averla neanche davanti o di fianco. Sembrava uno di quei gorilla dei film polizieschi americani che fanno da guardia del corpo al cattivo di turno, e che finiscono puntualmente per essere sciolti in malo modo nell'acido o massacrati sotto il colpo di qualche bazooka. Avrei proprio voluto vedere se rideva ancora con un bella canna di fucile dritta in gola. Ricordo che l'immagine di Jonas disteso per terra sanguinante, con il cranio in mille pezzi mi fece sorridere, e per un attimo mi dimenticai che stavo camminando su un trampolino in acciaio a 152m da terra. Dietro di me avevo sempre Jonas , mentre davanti c'erano altri  due simpatici energumeni con occhiali da sole all'ultimo grido, pronti a buttarmi giù semmai avessi provato a cambiare idea all'ultimo momento.


       Non ho altri ricordi di quel momento. Ricordo solo che alzai le braccia al cielo, unì le mani quasi in segno di preghiera, e guardai il cielo in alto quasi come se volessi volare via da tutto e da tutti.

     - Ed ora signori, un bell'applauso per il nostro Walter Khan. Walter è arrivato il tuo momento. Quando vuoi ...

      Fu un attimo. Corpo spinto in avanti. Braccia dritte. Piedi puntati al suolo. E fui subito a faccia in giù. 
      
       Riuscivo a malapena a tenere gli occhi aperti. Sentivo l'aria  fischiare forte dentro le orecchie ed entrarmi dentro la tuta. Il cuore batteva forte  nel petto come una mitragliatrice; le mani erano aperte quasi a tentare di frenare la caduta. Le chiappe serrate e i piedi uniti. Stavo percorrendo più di 20 metri al secondo in caduta libera, ma ogni attimo sembrava che durasse un'eternità. La terra si stava  avvicinando sempre di più e avevo la sensazione di avere tutti i muscoli in tensione. Il corpo era rigido, come un pezzo di marmo che stava per frantumarsi al suolo, quando ad un tratto sentiì il cavo tendersi dietro di me e tirarmi su per i piedi. Fu come se la mano di Dio fosse sbucata fuori dal cielo e mi avesse preso per i piedi. Mi sentiì arrivare il cuore in gola, più e più volte. Ed ogni volta che rimbalzavo sentivo la mente svuotarsi sempre di più, ed il corpo abbandonarsi a sè stesso. Sentivo però inconsciamente la voglia di ricominciare tutto daccapo. Non c'è sesso o droga che tenga, mi creda.       

      - La credo, la credo, Signor Khan. E' davvero entusiasmante sentirla parlare. Ed a sentirla raccontare da lei, signor Khan, mi viene quasi voglia di farlo anch'io. Anche se devo dirle la verità non sono un amante delle 'grandi' altezze 

     - Le assicuro che è la cosa più emozionante che abbia mai fatto finora in vita mia. Stento ancora a credere di averlo fatto, di essere riuscire a spiccare il salto. Ma mi creda, se potessi, pagherei per rifarlo nuovamente,  anche adesso!

     - Ahah. Oh no Signor Khan, non vorrà mica buttarsi fuori dalla finestra del ristorante. O almeno, se desidera così tanto farlo, perlomeno  si metta prima un paracadute.  

     - Non si preoccupi. Pagherei comunque il conto e le offrirei da bere prima. Almeno per sdebitarmi della noia che le ho procurato, ascoltando il racconto di un pazzo conosciuto per caso al bancone di un bar a Vienna.  

     - Oh no Signor Khan. Le assicuro che è un vero piacere ascoltarla. E senza di lei, questa serata al Donauturm non sarebbe stata così piacevole. 

Il Donauturm, o Torre sul Danubio, è uno degli edifici più alti di Vienna. Una o due volte l'anno, vengono organizzati dei lanci a pagamento dalla torre, e Walter Khan avevo deciso di prenotarne uno qualche mese prima. Ed era sempre al Donauturm, all'interno di uno dei due ristoranti che regala  una meravigliosa vista sulla capitale austriaca,  che aveva incontrato per caso questo simpatico sconosciuto, ed  a cui stava raccontando la sua avventura.  
     
     - E mi dica un pò signor Khan, se non sono troppo invadente, si è mai chiesto cosa è stato a spingerla. E perchè le è piaciuto così tanto.

     - Beh, un motivo c'è. E l'ho capito più che mai mentre penzolavo  dalla torre con la testa all'ingiù. 

Walter fece una pausa, quasi per dare solennità a quel momento, ed importanza alle parole che stava per dire.

     - Sono attratto dal limite che c'è tra vivere e morire. Io vedo sempre le cose di due soli colori, o bianche o nere. E se sto nel bianco, non vedo l'ora di mettere la testa nel nero, costi quel che costi. Mentre ogni volta che sento che sto per sprofondare nell'abisso, dò fondo a tutte le mie  energie per uscirne fuori, e solo allora scopro di avere delle forze che non pensavo neanche di avere. Poi, quando ne sono finalmente fuori con la testa, l'aria che respiro ha un sapore diverso, buonissimo, sento come un senso di pace e di libertà. E solo allora mi accorgo  veramente quanto sono fortunato a vivere. 

Ci fu una lunga pausa. Nessuno dei due voleva aggiungere altro a quelle parole. 

     - Incredibile Signor Khan. Non credo alle mie orecchie. Ero sicuro che sarebbe stato perfetto. E mi creda, lo è per davvero.

Walter sorrise, era felice di aver ricevuto un complimento, ma non era completamente sicuro di aver capito a cosa si riferisse. Lo sconosciuto si alzò dallo sgabello, si  mise una mano in tasca ed appoggiò qualcosa sul bancone.

     - Sono sicuro che ci rivedremo ancora Walter, e che faremo grandi cose assieme.

     - Ma cosa..

Walter lo guardò andar via, incredulo. Era rimasto paralizzato da quel comportamento.  E poi quella frase. Cosa diavolo significa 'Ero sicuro che sarebbe stato perfetto', pensò.

Neanche il tempo di pensarci su, che lo sconosciuto era già lontano.

Ma guarda te, tutti io li devo trovare. Ti sta bene Walter, te la sei proprio cercata. Potevi anche evitare di raccontare i fatti tuoi al primo svalvolato che passava.

    - Scusi, barista.Mi serve un altro di questi? Doppio stavolta. 

    - Certamente. Mi scusi, è suo quel biglietto sul bancone?

Il barista porse a Walter il biglietto che aveva lasciato lo sconosciuto. C'era sopra  un numero di telefono scritto a penna e niente più. Walter fece per girarlo dall 'altro lato e si pentì immediatamente di averlo fatto.

    -  Oh mio Dio. Ma che diavolo...

Il biglietto non era altro che una foto, su cui era stato scritto un numero di telefono sul lato bianco. La foto ritraeva un uomo, piuttosto corpulento, sdraiato per terra. Il pavimento era ricoperto di sangue. L'uomo sembrava essere stato colpito al volto da un colpo di arma da fuoco ma era ancora riconoscibile da chi lo aveva visto almeno una volta. Su quel trampolino. La foto ritraeva Jonas, steso lì per terra e massacrato a sangue freddo.  

      




giovedì 11 settembre 2014

Uno - Cedric Darlton

Ad Alessia non era mai piaciuto fare la spia. 

       Nemmeno ai tempi della scuola era mai riuscita a tradire i segreti di qualche compagno.     Aveva imparato la lezione quella volta che aveva visto Tania saltare addosso ad una ragazza del liceo durante la ricreazione. Dio santo, l'aveva sbattuta per terra e le aveva messo le mani al collo perché aveva  spifferato al preside il fatto che si facesse gli spinelli in bagno durante la ricreazione.

       Quella volta era finita male non solo per Tania e per la spifferatrice, ma anche per tutta la scuola. Il papà della spia aveva  denunciato tutto alla polizia e, da quel giorno fino alla fine dell'anno, l'ingresso della scuola era presidiato dagli agenti. Questi signori avevano però dei simpatici cagnolini al guinzaglio pronti ad azzannarti le tasche dei pantaloni o, peggio ancora, le parti basse, se provavi a nascondere il fumo nelle mutande o tra le chiappe.
       Alessia doveva aver imparato che fare la spia non era la soluzione e che mai nessuno aveva ricevuto un premio in cambio.            Ma evidentemente non le era bastata la lezione. 
         Oggi stava camminando nervosamente sul marciapiede che la portava da casa sua allo studio di Cedric con un  microfono attaccato al petto con lo scotch dei pacchi e un registratore dietro la schiena. Il marchingegno era un po' artigianale, ma sarebbe servito allo scopo secondo lei. 
       Aveva la fronte e le mani bagnate, e sebbene facesse molto caldo per essere una giornata di primavera, non era normale che sudasse in quel modo. Era troppo nervosa se ne rendeva conto, e l'idea che Cedric si potesse minimamente accorgere della cosa la terrorizzava e le metteva ancora più ansia.    Il piano però era perfetto. Nulla poteva andare storto. 
       Alessia avrebbe suonato al citofono, come al solito. Tre squilli, uno di seguito all'altro. Il primo corto, poi uno lungo e poi di nuovo uno corto, e Cedric le avrebbe aperto il portone. Alessia avrebbe salito le scale attenta a non fare rumore e a non farsi vedere da nessuno. Una volta arrivata non avrebbe avuto bisogno di bussare alla porta, perché Cedric avrebbe lasciato il portone socchiuso, come al solito, e l'avrebbe aspettata seduto dietro la scrivania, nascosto dalle sue vecchie montagne di carte. A quel punto, le sarebbe bastato sedersi sulla sedia verde davanti alla scrivania ed aspettare che Cedric pronunciasse le prime parole, e tutto il resto sarebbe venuto da sé. Quella maledetta serpe si sarebbe tradita da sola, e con lei la fine di un incubo.
       Era quasi arrivata allo studio e vedeva già il portone d'ingresso del palazzo in lontananza.   Rapida occhiata intorno. Nessuno.  Rapida sistemata al microfono.  Al registratore. Camicetta. Abbottonata. Mano sulla fronte. Sudore. Asciugato. Si entrava in scena.
       Cedric Darlton aveva lo studio in un vecchio palazzo nel borgo di Redbridge. La facciata era stretta e lunga e le uniche finestre che davano sulla strada appartenevano ad  appartamenti oramai sfitti da tempo, o a studi medici. Sulle etichette del citofono non c'erano scritti molti nomi, e se  mai avessi provato a  cercare 'Darlton' tra quei nomi non avresti trovato un bel niente.
        Ma Alessia sapeva qual'era il campanello giusto. Uno squillo breve, poi subito uno lungo e poi di nuovo uno corto. Niente. Ogni secondo sembrava un'eternità, sentiva il cuore battere come un tamburo dentro il petto. Stava per poggiare nuovamente il dito sul campanello, quando ad un tratto  udì lo scatto del portone. Cedric aveva aperto.
         L'aria all'interno del palazzo era piacevole. Meglio così, un po' di aria fresca le avrebbe fatto bene, e mentre saliva le scale Alessia cominciava a prendere coraggio. Sentiva la vittoria vicina e le si era stampato sul viso un leggero ghigno di soddisfazione. 
         Alessia aveva quasi finito di salire le scale quando notò subito qualcosa di diverso dal solito. La porta dello studio di Cedric oggi era aperta, spalancata. Si vedeva la luce uscire dalla porta e stamparsi sul muro opposto. In quell'attimo vide il film che si era fatto in testa cambiare sceneggiatura. La sua mente iniziava a confondere le idee e mentre stava cercando di darsi una spiegazione,  saliva meccanicamente gli ultimi scalini con lo sguardo fisso sulla porta che man mano si avvicinava, finché una volta giunta davanti lo studio , lo vide.
          Cedric la stava aspettando in piedi al centro della stanza. La sua figura si stagliava imponente tra la finestra e la porta. Il suo viso era contro luce e il corpo le porgeva il fianco destro in una postura piuttosto innaturale.
    -  Buongiorno Alessia! Accomodati pure, ti stavo aspettando. Cosa c'è che non va? Ti trovo un po' pallidina. 
   - Oh, Cedric. Scusa, non mi aspettavo di trovarti qui. Cioè...
   - Ah, e chi ti aspettavi di trovare nel mio studio? Su dai , entra, non fare la sciocchina
   - Sì, scusa hai ragione. E' che oggi sono arrivata di corsa e sono un po' accaldata. Fuori fa caldo e... uff ... mamma mia che sudata. Tu ? come stai?
   - Bene , bene... Vieni, accomodati cara. Appoggia pure la borsa sull'appendiabiti.

      Alessia sentiva che qualcosa stava andando storto. Ma non capiva cosa. Dove aveva sbagliato? Sì è vero, era nervosa e si vedeva. E lui; perché l'aveva aspettata in piedi? Perché non era seduto a quella sua stramaledetta scrivania, perché non scriveva con quella sua stramaledetta china su quei dannatissimi fogli.

      I pensieri si facevano sempre più numerosi dentro la mente di Alessia, quando ad un tratto sentì come una forte puntura dietro la testa. Sentì i muscoli delle gambe cedere, e franò per terra senza forze. Mentre l'immagine di lui diventava più sfocata e la stanza cominciava a girare vide Cedric fissarla in piedi con qualcosa in mano.
       Cedric l'aveva colpita con l'attizzatoio del camino, dietro la nuca, proprio mentre lei si era girata di spalle per appendere la borsa all'appendiabiti.      
-Lo teneva nella mano sinistra quella serpe, pensò, prima di perdere completamente i sensi. 
E poi nulla più. Solo il buio.